Flottilla, piazze e silenzi: il diritto di indignarsi

In questi giorni le piazze italiane si sono riempite di nuovo.

Cartelli, bandiere, silenzi, rabbia composta e speranza intrecciata: persone di ogni età, credo e storia personale, unite da una parola che oggi sembra quasi rivoluzionaria, “PACE”.

Eppure, c’è sempre qualcuno che chiede:

“Ma a cosa servono queste manifestazioni? Hanno messo fine alla guerra? Hanno cambiato qualcosa?”.

Domande legittime, ma che spesso rivelano la fretta di risultati e la nostra incapacità di riconoscere il valore del tempo. Nella società del “tutto e subito”, abbiamo dimenticato che i cambiamenti veri sono lenti, fragili, costruiti giorno dopo giorno.

Le manifestazioni di questi giorni non sono nate per caso.

Arrivano dopo gli abbordaggi israeliani alle navi della flottiglia, che portavano aiuti umanitari verso Gaza, avvenuti in acque internazionali. Un atto che molti giuristi hanno definito una violazione del diritto del mare, un abuso di forza contro civili disarmati.

Mentre i nostri connazionali venivano arrestati e detenuti, illegalmente, secondo le convenzioni internazionali, la Presidente del Consiglio Meloni ha dichiarato che non intende finanziare il loro rimpatrio.

Una frase che suona come una beffa: come se lo Stato non avesse il dovere di difendere i propri cittadini quando vengono fermati senza motivo, ma solo quando conviene politicamente.

Eppure le piazze hanno risposto: decine di migliaia di persone sono scese per dire “no” al silenzio, “no” alla complicità, “no” alla paura.

Non per cambiare tutto in un giorno, ma per ricordare che ci sono limiti oltre i quali non si può restare neutrali.

La storia ci insegna che nessuna conquista è nata all’improvviso.

Se parliamo dei lavoratori mi vengono in mente Le ferie pagate, e poi il diritto di voto, il divorzio, la libertà di parola: tutte vittorie che hanno richiesto anni di manifestazioni, scioperi, sconfitte e perseveranza.

E poi il grande esempio di Rosa Parks.

Una donna che cambiò il corso della storia con un semplice “no” su un autobus. All’inizio la presero per una pazza, una provocatrice.

Ma 385 giorni di proteste pacifiche dopo, la segregazione razziale in Alabama fu dichiarata incostituzionale.

Non cambiò tutto subito, ma accese una scintilla che non si è più spenta.

Negli ultimi decenni abbiamo perso qualcosa di prezioso: la cultura della dissidenza.

Oggi contestare viene spesso dipinto come un atto inutile o sovversivo, ma io ho imparato che la democrazia vive solo se qualcuno ha ancora il coraggio di dire “non va bene così”.

Le piazze di questi giorni non cambieranno la geopolitica, non fermeranno da sole i carri armati, ma mantengono viva la coscienza collettiva, ricordano che la giustizia non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana.

Dobbiamo insegnare ai nostri figli che anche i gesti più piccoli contano, che la giustizia nasce da scelte quotidiane e dalla capacità di non voltarsi dall’altra parte.

Manifestare, scrivere, esporsi: sono modi per dire “ci sono”, “vedo”, “non mi va bene così”.

E dobbiamo ricordarci una cosa semplice, ma fondamentale:

👉 Indignarsi è un diritto.

Indignarsi di fronte alle ingiustizie, al dolore e all’arroganza del potere non è debolezza, è umanità. È la prima forma di resistenza, il segno che siamo ancora vivi, che non abbiamo smesso di sentire.

E forse è proprio questo il compito più importante del nostro tempo: non smettere di credere che valga la pena esserci.

Perché non è vero che le manifestazioni non servono.

Servono a ricordarci chi siamo, e che tipo di mondo vogliamo lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti.

E oggi, davanti a un mare che separa e a un governo che volta lo sguardo, le piazze sono l’unico ponte rimasto tra l’indifferenza e la dignità.