Ogni anno, puntuale come le tasse e i meme di coniglietti, arriva la Pasqua. E noi lì, pronti a rispolverare parole grosse: Rinascita, Speranza, Resurrezione. Poi però guardi il mondo e pensi: “Ma esattamente, chi è che sta resuscitando?”
Perché a guardar bene, ci sono milioni di persone che in croce ci restano.
E mica per tre giorni.
Ci restano a vita, senza neanche la consolazione di una folla che li acclama o una pietra da rotolare via. Sono i civili sotto le bombe, i migranti che affondano in silenzio, gli ultimi che non fanno notizia.
E intanto noi, tra un uovo di cioccolato e una colomba farcita, ci raccontiamo che “Pasqua è la festa della pace”.
Certo.
Come no.
Pace armata, magari, che va tanto di moda.
Allora la domanda è: ha ancora senso tutto questo?
Ha senso ripetere un rito che parla di resurrezione mentre là fuori c’è gente che non ha mai avuto neanche una vera vita da cui risorgere?
Forse sì. Ma solo se smettiamo di usarlo come coperta di Linus. Solo se iniziamo a vederlo per quello che potrebbe essere: un promemoria scomodo, un invito a fare i conti con noi stessi. Perché se la Pasqua ha ancora qualcosa da dire, non lo dice con i canti e le preghiere, ma con le domande.
Da cosa dovremmo risorgere, noi?
Dal torpore? Dall’indifferenza?
Dalla comoda abitudine di guardarci il mondo dal balcone, col giudizio facile e l’anima in pantofole?
Il punto non è buttare i riti, ma dar loro un senso nuovo. Farli uscire dalle liturgie e portarli nei quartieri, nelle scuole, nelle strade dove la resurrezione sarebbe davvero una notizia, non un simbolo.
Perché il miracolo, oggi, sarebbe smettere di far finta di niente.
E allora, visto che a risorgere sul serio sono in pochi, facciamo almeno la cosa più rivoluzionaria di tutte:
UN BRINDISI.
Un brindisi alla coerenza.
Che magari non cambia il mondo, ma ci ricorda chi potremmo essere, se solo decidessimo di crederci.
